3 - Il sentiero della vita

Il tempo dovrebbe essere considerato con massima scrupolosità, poiché una giornata, un’ora passata inoperosa, o impiegata in un lavoro molle è inesorabilmente perduta alla vita. Tutte le mattine alzandosi bisogna prepararsi un itinerario severo di tutta la giornata e seguirlo colla più meticolosa coscienza, onde alla sera coricandosi si senta la fatica e quella specie di compiacenza che lascia la lotta del dovere allorquando condotta con vero scrupolo. (…) Bisogna essere forti, camminando sempre nel proprio sentiero della vita con sicurtà di sé medesimi; e quand’anche per la soverchia scabrosità del sentiero, avvenga che di frequente si caschi, non avvilirsi, ma rialzarsi più vigorosi di prima e seguire la propria via come se nulla fosse avvenuto.

Giugno 1896. Diari di Giovanni Battista Ciolina. Trascrizione di Paolo Ciolina

APPROFONDIMENTO CRITICO
Un pittore come Ciolina formatosi, alla scuola di Enrico Cavalli, sul tema della luce e del colore e per il quale il paesaggio è un ‘pretesto’ per sperimentarne le infinite variazioni, non poteva sottrarsi alla sfida di rappresentarli quando il cielo ormai imbianca nei suoi ultimi bagliori, specie invernali, e non riesce più a restituire le cromie della realtà. Fra i risultati più eccelsi di questa sfida, trionfalmente vinta, troviamo Mestizia Crepuscolare, una delle opere più poetiche e coinvolgenti della produzione del maestro di Toceno.

Ma non solo: un unicum nel panorama artistico nazionale ed internazionale di quegli anni, certo per il soggetto – l’ultima, ultimissima luce di un terso tramonto invernale – ma soprattutto per la tecnica messa a punto dal pittore. Nessuna riproduzione fotografica è in grado di restituire fedelmente questo capolavoro assoluto, vera sinfonia di colori freddi, grigi, neri, viola, blu e lucido bitume, a cui l’impercettibile velatura calda del cielo conferisce, per contrasto, ancora maggiore glacialità. Tutti i colori del giorno, sia pure spenti perché invernali, scompaiono fondendosi in un’atmosfera bluastra e violacea che smorza persino il tenue calore bruno dei mucchi di foglie, della gerla della donna in primo piano e delle luci che debolmente illuminano le finestre delle case lontane.

Eppure, ogni millimetro quadrato della tela vibra come potrebbe farlo se raffigurasse una limpida giornata di sole in controluce: soltanto qui la luce manca! Per ottenere questo effetto tutta la superficie del quadro è composta da una materia tormentata, stesa talvolta a tratti filamentosi, come nelle montagne o nel basso muretto a sinistra; oppure a tocchi brevi, fitti ‘punti’, ben visibili negli alberi; infine grumosa e spessa nel cielo e nelle case, tanto grumosa da lasciare dei profondi vuoti, delle cavità entro cui la luce non entra e che fanno così vibrare la superficie con un effetto del tutto inaspettato e inedito, con un risultato che è l’opposto di quello impiegato dai divisionisti per rendere la luce. Mestizia crepuscolare non è un quadro divisionista: non può esserlo perché in esso il colore – quello primario – non è scomposto e accostato. Lo è invece la materia, ormai priva di cromia ma che, per una misteriosa e straordinaria alchimia, di questa cromia conserva e trasmette l’ultima traccia.

Non c’è alcun simbolismo in Mestizia: gli alberi nudi non hanno il tormento segantiniano della betulla di Pastorella con pecora al Ranton (tappa 2); la rigida figura della donna in primo piano, paradossalmente troppo grande, non rimanda ad alcun simbolismo nascosto: è piuttosto un elemento indispensabile della scena che, si noti bene, è umana (le case, il giardino, i muretti…) e non respinge e condanna l’uomo, come nel Castigo delle lussuriose o nelle Cattive madri di Segantini. Sollecita piuttosto la nostra partecipazione, il coinvolgimento poetico al morire del giorno e alla suggestione della fredda notte che avanza.

Il ruolo di questa donna, la sua funzione sono gli stessi della figura femminile che, protetta da un ombrellino violaceo, scende lungo la china innevata dei prati appena sotto il belvedere di Toceno in Crepuscolo invernale del 1906. Non è qui l’ora dell’estrema luce del giorno, piuttosto quella del tramonto, resa però livida dalle fitte, dense nuvole che tuttavia lasciano trasparire il baluginìo del sole morente, ancora in grado di lasciare in ombra la figura della donna.

È un controluce quanto mai insolito, in cui la figura femminile ed il muraglione del belvedere emergono nel mare di neve grigiastra quali unici elementi che ricevono la luce. Di estrema sapienza è la costruzione della scena, in cui il taglio diagonale del pendio e delle montagne sullo sfondo conferisce dinamismo all’incedere della donna che, in modo estremamente convincente, fatica nella discesa lungo la china. La rappresentazione della neve è un’impresa di non facile risoluzione per un pittore, soprattutto quando, come qui, non è nella tersa luce diurna, ma piuttosto in quella livida di un cielo cupo ed occorre calibrarne il nitore. Come Ciolina aveva fatto, in quello stesso periodo e con esiti strepitosi, in Inverno in Val Vigezzo realizzato per il senatore Alfredo Falcioni.


Ricerca e adattamento testi e immagini a cura di Chiara Besana. 
Approfondimento critico a cura di Paolo Volorio.

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